"Lo spreco di risorse nei Servizi per il Lavoro"

Un giornalista di una nota trasmissione d'inchiesta televisiva ci ha contattato per aver informazione sugli sprechi nel settore lavoro e nei centri impiego. Sotto la nostra risposta su cosa intendiamo per sprechi e dove sono.

Noi riteniamo che in questi anni i servizi al lavoro in Italia siano stati sotto finanziati e letteralmente smantellati. Se si cerca lo spreco in questi servizi questo va inteso come scelte, anche politiche, che sono andate nelle direzione di deprimere ruolo e funzione dei servizi pubblici per il lavoro.
Un esempio di scelte politiche di allocazione delle risorse che va nella nella direzione su esposta è quella della Provincia di Firenze, che in questi anni ha finanziato il “Progetto APL” (Agenzie Per il Lavoro). Un'iniziativa che, per i promotori, avrebbe dovuto esaltare i benefici della collaborazione fra pubblico e privato e che, invece, appare un foraggiamento del privato con risorse pubbliche.Il progetto aveva come finalità l'incremento occupazionale tramite le agenzie interinali del territorio fiorentino di categorie di disoccupati in situazione di svantaggio (disoccupati di lunga durata, over 50, inoccupati, giovani occupati in maniera saltuaria). Il suo funzionamento prevedeva un sorta di “premio” in denaro per le agenzie interinali ad ogni assunzione che riuscivano a fare. In sostanza si finanziavano le agenzie interinali per il lavoro che normalmente svolgono, cioè di assumere persone per impiegare loro in una determinata prestazione lavorativa nelle aziende. Il bilancio è stato deludente.
Si sprecano risorse sottoutilizzando le competenze degli operatori interni (di cui molti laureati e specializzati). Queste sono spesso poco valorizzate. Non c'è un'idea chiara di cosa fare con questi servizi. Assistiamo da anni ad un affastellarsi di progetti senza organicità e senza un'idea precisa di cosa si voglia raggiungere con le varie sperimentazioni fatte. Le amministrazioni hanno schiacciato i propri dipendenti sotto il peso degli adempimenti burocratici, non ascoltando chi di noi ha più volte stigmatizzato che una buona metà di quanti si iscrivono ai CPI lo fa per motivi diversi dalla ricerca del lavoro: dall'esenzione dei ticket sanitari alla fruizione di altri servizi pubblici; dalla partecipazione ad un bando per una borsa di studio alla tariffa ridotta per i bus...potremmo proseguire con una casistica pressoché infinita. Questo è un altro modo di sprecare risorse, tempo e soprattutto competenze.
I centri impiego sono in parte finanziati con una quota del Fondo Sociale Europeo, al quale molti soggetti privati vorrebbe accedere ancor di più. Questo spiega gli attacchi ai servizi pubblici per l'impiego e l'esaltazione del servizio privato, che in questi anni non sono mancati. Basta pensare all'articolo che Sergio Rizzo ha pubblicato nel novembre del 2012 sul Corriere della Sera o la continua campagna mediatica, volte a dimostrare l'inefficienza del pubblico e di contro l'efficienza del privato. Un privato, tra l'altro, spesso finanziato con soldi pubblici. L'articolo di Rizzo si avvaleva della testimonianza e dei dati forniti dal presidente della Confartigianato. Una fonte quanto meno poco oggettiva. La Confartigianato, insieme ad altre associazioni datoriali e dei lavoratori, rappresenta quel privato che l'autore dell'articolo sembra invocare implicitamente quale soggetto capace di aver successo la dove il pubblico sembra, a sua detta, aver fallito. La Confartigianato, insieme agli altri sopra citati, è già a pieno titolo un cogestore dei servizi forniti dai centri per l'impiego. Se una colpa, e conseguente spreco di risorse, è da attribuire al pubblico è lo scarso controllo sulla qualità dei servizi dati in appalto ai privati. Un ridimensionamento del servizio pubblico è funzionale agli appetiti di molte agenzie che mirano a gestire fette sempre più ampie di questi servizi e magari con la scomparsa definitiva del servizio pubblico, le strutture private potrebbero arrivare a farsi pagare gli stessi servizi che ora sono obbligate a dare gratuitamente ai disoccupati (la raccolta curriculum e l'incrocio domanda/offerta).
Spesso viene messo in risalto la scarsa fiducia che le aziende hanno nell'avvalersi dei sevizi pubblici per la ricerca di personale, mettendo altresì in evidenza, come il passa parola o la presentazione siano il canale maggiormente utilizzato per trovare personale. Attribuire ai servizi pubblici per il lavoro con scarse risorse e mezzi il compito di governare il mercato del lavoro modificando prassi, atteggiamenti e una cultura che si affida quasi totalmente alla relazione personale per cercare un impiego, significa misconoscere quale sia stata la politica che per decenni si è perpetrata nei confronti di questi servizi. Da decenni è stata tolta ai servizi pubblici per il lavoro, attraverso una metodica destrutturazione ed un impoverimento anche materiale (basta pensare al gran numero di precari presenti in questi servizi), la capacità e la funzione di governare e regolamentare il mercato del lavoro. Funzioni che sono state distribuite ad una molteplicità di enti che con il lavoro hanno poco a che fare. Mancando, così, una regia unica e pubblica su scala nazionale risulta impossibile regolamentare e tutelare il lavoro e il lavoratore. Se vogliamo davvero aumentare il placement diretto basterebbe fare come in Svezia: obbligare annualmente le imprese a comunicare pubblicamente le proprie vacancies Ciò consentirebbe, anche, di rendere trasparente il sistema e, forse, di uscire dal dramma - questo sì reale - dell'essere assunti solo per conoscenza, che spesso si riassume nel “ti assumo se ti conosco o se sei amico dei miei amici, meglio se sei un giovane apprendista ma con esperienza, meglio se non sei donna e non vuoi fare figli, meglio ancora se sei della mia città e parli con il mio accento, meglio se non sei disabile, meglio se ti pago poco e meglio ancora se ti assumo con una qualifica generica e poi ti faccio svolgere mansioni superiori, meglio se una parte ti pago in nero....ecc..ecc...” in questo sistema le competenze sono solo un elemento accessorio e la selezione del personale privilegia il rapporto di fiducia (riproducendo così il legame familiare) piuttosto che puntare sulle competenze. Questo tipo di logica alla lunga ha indebolito il sistema aziendale italiano, rendendolo meno competitivo e creativo difronte alla crisi crescente.
Le scelte della politica italiana sul lavoro non riescono a venire fuori dalla logica secondo la quale per favorire occasioni di lavoro occorre letteralmente pagare i datori, con forme più o meno surrettizie di incentivi, ulteriore spreco. Per altro talmente incoerenti che ogni sistema di “incentivazione” ad assumere finisce per fagocitarne un altro. Si ha l’assenza totale di un sistema di incentivazione della domanda di lavoro, cosa che avrebbe dovuto essere al centro dei progetti di implementazione dei servizi per il lavoro, insieme alla formazione: cioè, predisporre strumenti di avvicinamento al lavoro e qualificazione dei lavoratori inducendo le imprese a manifestare pubblicamente le domande e riservando premi economici solo alle imprese disposte a pubblicizzare le domande.

Per cui per noi il vero spreco è avere dei servizi che potrebbero funzionare e impegnarsi in direzione contraria.

Per dare una panoramica della situazione in Europa possiamo vedere molto differenze.In Germania, il sistema pubblico per il lavoro e forte e bene finanziato. Nel 2007, in Germania il personale dei servici pubblici al lavoro ammontava a 74mila dipendenti oggi 115000; in Gran Bretagna 67mila unità nel 2007 oggi 77722; inItalia9989 nel 2007 e 8000 (di cui circa 1200 precari ca).Nel 2011 l’Italia ha speso per i servizi pubblici per il lavoro circa 500 milioni di euro contro i 5,8 miliardi spesi dalla Francia, gli 8,8 miliardi della Germania, i 5,5 miliardi del Regno Unito e gli 1,3 miliardi spesi dalla Spagna. Le spese per politiche del lavoro sul Pil in Germania erano il 0,34%, in Gran Bretagna lo 0,34%, in Italia l'0,03%. I rapporto operatori disoccupati in Germania è 1 su 48, in Gran Bretagna 1 su 24, in Italia ben 1 su 150 (nelle grandi città italiane siamo a circa 1 a 500). Tradotto significa che gli operatori dei CPI in Italia hanno in carico, pro capite un numero molto maggiore di persone a fronte di minori strumenti, risorse e progetti di inserimento.Come già scritto sopra, negli ultimi tempi una parte autorevole della stampa ha focalizzato la propria attenzione sui Centri per l’Impiego, analizzando (spesso in modo troppo superficiale) le attività che vengono svolte in questi uffici e divulgando dati scoraggianti circa la performance complessiva dei servizi evidenziando come i pochi soldi spesi per mantenerli siano a loro avviso uno spreco.Tali affermazioni sono stati recentemente smentiti da una indagine dell’ISFOL (Lo stato dei Servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e sorprese ) dal quale si riscontra che il nostro paese si colloca tra quelli che hanno meno investito nei servizi per l’impiego e si segnala negativamente, in quanto, contrariamente a quanto suggerito dalla UE, ha ridotto nella crisi il supporto agli SPI, sia in termini di risorse finanziarie che umane. L’unica, peraltro magra consolazione, è che il sistema degli SPI italiano, nonostante il de-finaziamento e la crisi, sembra aver tenuto.e dal Rapporto sul Mercato del Lavoro CNEL del 30 settembre 2014 sottolinea che:“[…] su questo fronte, la vera sorpresa è il nostro paese, ove il costo per singolo intermediato è tra i più bassi. Sia detto per inciso che i dati relativi all’Italia smentiscono ampiamente recenti analisi, rimbalzate sulla stampa, che hanno lamentato lo spreco delle risorse pubbliche destinate agli Spi (Servizi per l’Impiego).”Anzi, dai dati emerge evidente che più si è investito sui servizi al lavoro e più rapida è stata la capacità di reazione dell'economia dei paesi, infatti la prima per investimenti risulta la Germania una tra le ultime l'Italia.

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